Se il problema vien posto dal punto di vista critico nella speciale ottica che è dell’arte contemporanea, si dovrà riconoscere che la “qualità” del vetro in quanto materia e come ogni altra materia, non travalica la sua materialità. Il vetro è il prodotto di una raffinata tecnica squisitamente artigianale, dunque non è mai stato inteso, di necessità, come un mezzo per giungere (come accade, invece, per i materiali usuali della scultura) all’invenzione di forme non utilitarie (utilitario è persino il soprammobile astratto, non vaso, né lume, né piatto, né coppa, né bicchiere il più arzigogolato e sublime che sia).

La qualità materiale del vetro è, tuttavia, affascinante in sé. Si dirà di più: spesso la pasta vitrea, infida, terribile e temibile, si fa ambigua e frastornante, è perfida quand’anche si sottometta con accattivante e lussuosa disponibilità o con eleganza elegiaca (per la qualità dei riflessi e dei giochi di luce) alla mano del creatore di oggetti stupendi. I “mille anni” dell’arte del vetro veneziano ne danno testimonianza. Nessuno dei “mille anni” ha avuto, però, a che fare con la scultura, anche se in qualche momento ne ha rasentato l’indipendenza inventiva, la libertà espressiva, la compiutezza formale.

Questo concetto adombravamo nelle parole di chiusa di un nostro testo di sette anni fa, un testo di presentazione della mostra di Luciano Vistosi scultore, alle Prigioni Vecchie, la prima o quasi di una serie di esposizioni che hanno poi strappato l’artista veneziano al bòzzolo nel quale sembrava rinchiuso e alla splendid isolation che egli amava svisceratamente, per trasformarlo, suo malgrado, in uno scultore ammirato dalla Florida al Giappone, dal nord-Europa a questi suoi stessi lidi e non esclusivamente perché per le sue opere egli usa il vetro.

Già allora affermavamo anche, senza tema di smentita, come egli fosse l’unico nella storia dell’arte- ivi compresa quella del moderno design che abbraccia nel settore del vetro tanta creatività utilitaria o decorativa – ad avere aggiunto di proprio all’incomparabile qualità effettuale della materia la qualità formale dello scultore.

Le opere recenti che egli ha riservate a questa mostra nell’augusta sede di Giorgione e del Bellini, di Tiziano e del Palladio, del Veronese e dei Guardi, ce lo rivelano, se possibile, artista ancora più ascetico e solitario: ci confermano quanto sia spoglia e severa la sua ricerca per la forma assoluta (erede, in questo, di Alberto Viani più ancora che di Arp), quanto elevato sia il suo rigore linguistico e quanto sia incommensurabile (nella speciale citata ottica dell’arte contemporanea) la distanza che lo separa dai maestri del vetro più avveduti e più sapienti. È chiaro che maestro del vetro anch’egli lo è. La differenza consiste nel fatto che la sapienza tecnica non gli impedisce di deflettere dalla sua visione formale di scultore.

Pietro Consagra, per fare un esempio recente, ha vissuto una breve esperienza in una fucina veneziana. Il suo accostarsi alla materia vetro (con l’intento di sottometterla alla sua visione formale) si è risolto in un disastro.

“È possibile – ha scritto poi – che tutta la meraviglia del vetro e tutta la valentia dei maestri vetrai vada in candelabri e posacarte? Il vetro Murano sono Angelica e Medoro”1. Consagra, val la pena ricordarlo, aveva addomesticato l’avorio e le pietre dure con la tecnica “a levare” che è retaggio di ogni scultore, anche del più moderno e industriale che usi diamante o carborundum per piegare al suo volere le materie renitenti. Il fatto è che il vetro renitente non sia, è liquido, infuocato e sfuggente, rischioso e ingrato e richiede una maestria diversa tutta per sé. Se la si possiede, diventa remissivo, fa il gioco del creatore più azzardoso, finché il forno non compie il resto dell’opera e il raffreddatore poco dopo. Sono orizzonti che lo scultore non aveva scrutato mai o perché inesperto e pavido, o perché impaurito e scettico. “Gli scultori del mondo, ha scritto ancora Consagra, dovrebbero sbarcare a Murano e impossessarsi di una vetreria”. E poi? Rodin poteva disporre delle fonderie più agguerrite. Ma le vetrerie di Murano dovrebbero disporre di scultori adusi al vetro come Vistosi. Il connubio è, come si vede, tutt’altro che possibile.

Come dimostrano le opere recenti di Vistosi, la materia è uno stadio tecnico che va superato a priori.

Le qualità materiali dell’opera devono essere soggiogate dallo stile. Il vetro ha come dato di base la trasparenza? Bisognerà distruggerla con fonde opacità, conferendo all’opera una pelle spessa e traslucida. Il vetro può essere attraversato dalla luce? Bisognerà portarlo al limite della notte, dargli la misteriosa e inesprimibile tensione della materia compatta, come una spessa nuvola attraverso la quale il raggio riesce appena a trapassare. E le marezzature delle superfici? Sono un tessuto che spenge la liquidità vitrea: talvolta è latteo, talvolta è funebre come l’ala di un uccello notturno, terreo e focale. La forma ora ondeggia come una curva femminea, ora si piega come un dorso possente. Sono di vetro queste sculture, fragili e resistenti, che un fascio di luce può incidere e un martello percuotere, di modo che l’onda sonora si spanda nell’aria?

Luciano Vistosi, scultore semplice quanto imperscrutabile, ripone le sue forme arcane nell’enigma, istituisce un rapporto tra fantasia e rigore, tra matematica e poesia. Vanno d’accordo matematica e poesia – è antica nozione – ma si coniugano di rado. Il logos rima con il nomos quando la metafisica, notturna metamorfosi risuoni come “arpa eolica” nella condizione privilegiata. Come quel suono si avvera per virtù del vento della notte, così queste forme si librano in virtù della loro materiale metamorfosi: ciò che fu all’origine aria e fuoco incandescente e poi trasparente liquidità, si fa materia tangibile, pronuba al suo destino di forma, il solo che Luciano Vistosi riconosca e intercetti.

1. G. Appella, Colloquio con Consagra, Roma, ed. della Cometa, 1981, pp. 17-19.

Giovanni Carandente
Spoleto, Agosto 1982