Nella luce silenziosa dell’alba prese forma l’immagine di una donna immane. Ci fu un attimo di sbalordimento nel gruppo degli aiutanti. Vistosi capì all’istante che il raffreddatore non l’avrebbe contenuta, e che bisognava quindi deporla subito, altrove.

La portarono nella calle a lato della fornace e la posarono sul selciato. Fu un attimo, tanto da poterla cogliere nella sua provvisoria, fugace esistenza. Poi sparì. Rimase sulle pietre l’orma grande e solenne di questa creatura di pochi istanti.

Il gruppo degli uomini guardava stupito il Maestro che, dall’animazione frenetica di poco prima, era passato all’osservazione quieta dell’ombra sulle pietre, degli astanti, delle proprie mani, con grande e sereno distacco. Quasi un apologo.

Questo sapeva Vistosi da sempre, fin dagli anni dell’adolescenza quando nella fornace, qualche ora prima del giorno, si spegnevano i fuochi e nei forni spalancati appariva il magma incandescente: virtualità perfetta che aveva in sé tutto per ogni possibile progetto e anche il nulla della sua stessa negazione.

Solo un corpuscolo di tempo infinitesimo separa l’essere dal non essere, l’avemo della forma come inizio di una vita dallo spegnimento per sempre nell’inerzia del materiale, chiuso nel proprio invalicato silenzio. Si trattava di cogliere quel timing segreto e irreperibile che nel farsi forma di vita dava inizio ad un processo continuo e ininterrotto perfettamente coincidente con i tempi reali dell’esecuzione.

Sono stati altre volte descritti i modi e le tecniche che Vistosi segue nel proprio operare: il ricorso al disegno come appunto iniziale, l’uso del modello in materiali diversi come possibile, ulteriore approssimazione; ma tutto ciò costituisce solo un ante quem, tuttalpiù ideologico che poco aiuta all’intelligenza dell’opera finita.

L’effettivo processo coincide con l’orchestrazione dei tempi di intervento sul materiale incandescente, delle decisioni e dei gesti, che sono atti verbali e fattuali del Maestro e del gruppo, all’unisono.

Brancusi, Arp e Viani sono le tre possibili referenze per le scelte linguistiche di base che Vistosi compie negli anni ’60, ma per altro la qualità della materia su cui opera lo determina a soluzioni rapide e personalissime, con andamenti sinottici ed esiti improvvisi ed inattesi, tendenti sempre alla definizione dell’oggetto plastico come luminosa metafora di altri corrispondenti oggetti, situabili indifferentemente prima o dopo nell’ordine dell’esistente.

Il colore della materia- il nero notte dell’ultima stagione, il verde acqua, il celeste aria delle precedenti; la luce che lambisce e penetra le superfici; il gioco, calibrato attraverso gli interventi a diamante, delle compenetrazioni tra spazio esterno e spazio interno dell’opera, sono i segni distintivi di una complessità elegante, di una molteplicità unitaria che fa di ognuna di queste immagini un momento di esperienza esistenziale tormentoso e rivissuto ogni volta in termini definitivi.

Paesaggio e corpo umano, oggetto primario e animale convivono e si definiscono volta a volta per il prevalere di una connotazione, come un segno che nel volgersi di un cumulo, indica insistente la presenza di un volto umano nell’alto del cielo.

Poche altre sculture di questa nostra stagione storica racchiudono come queste di Vistosi un destino tanto complesso, espresso in termini di altrettanta semplicità e immediatezza.

Il vetro è solo una scelta dell’artista: niente di più e nulla di diverso, influente rispetto i mezzi, ininfluente per quanto riguarda gli esiti. Potrebbe essere un’altra materia e il discorso di fondo non cambierebbe. Come non è cambiato per il fatto che Vistosi sia un mancino e abbia dovuto costruirsi tutta l’utensileria ad hoc, e quindi anche una tecnica idonea, per lavorare il vetro con la mano sinistra.

Giuseppe Mazzariol
Venezia, Agosto 1982